..da “Il Taccuino” di Dido Guerrieri

Il Taccuino edito da Libri di Sport di Ricky Morandotti Editore a cura di Massimo Turconi

I brani tratti da questo libro che Dido Guerrieri e Massimo Turconi ci hanno regalato nel 1996, fu presentato, oltre che a Bologna anche a Torino a “All American” di via Sacchi In un locale sotterraneo pieno di sport…a volte si dimentica il profumo intenso di quel basket e solo pochi che l’anno vissuto possono dire: io c’ero! Con il senno di dieci anni dopo e rileggendo i brani narrati dal “Prof”, mi sono accorto che il tempo si è fermato e come una lezione di storia contemporanea. Senza renderti conto, ti accorgi che si è fatto mattino…incredibile come ti prende! E’ veramente un pezzo unico di storia del basket inter-nazional-piemontese che difficilmente si ripeterà. Forse, nel nostro piccolo, riportare alla luce queste testimonianze, potranno essere di sostegno ai giovani e meno giovani affinchè possano godere di un momento di storia cestistica, ma anche di una visione culturale del mondo di un uomo che ha saputo assorbire e trovare il tempo e lo spazio per raccontare momenti della sua vita, con un tono di attenta ironia, allegria, tristezza arrivando quasi sempre al punto di non ritorno senza diritto di replica. Lo si intuisce e si legge da quello che dicono i suoi assistenti e le persone che hanno collaborato nella sua “funzione” di allenatore. Ha saputo vivere e cogliere ogni istante, da scrittore dell’era moderna “futuristica” e ancor meglio saperlo raccontare da Eternauta …. Grazie Professore…. “Amici di Franco e Billo”

Massimo Turconi
autore della raccolta
“il Taccuino di Dido Guerrieri”

..stralcio dal libro
nato a Busto Arsizio (VA), sposato con Paola, ha una figlia, Serena, di quasi due anni. Allenatore di basket dal 1979, nel 1988 ha iniziato l’attività di giornalista e attualmente collabora a tìtolo continuativo per il settore basket, con frequentissime “incursioni” anche nel calcio, per il quotidiano “La Prealpina” di Varese, il settimanale “Settegiorni” di Rho (MI) ed alcune testate nazionali.
Studente a tempo perso presso la facoltà di Storia all’Università Statale di Milano, condivide col professor Guerrieri la grande passione per la lettura, i viaggi, Seattle, per la musica classica, per Mozart e per i maggiori compositori del Settecento.

 

IL TACCUINO CONCLUSIVO

” Per tutto c’è un momento, e il tempo per ogni azione, sotto il sole. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per seminare e un tempo per raccogliere, un tempo per parlare e un tempo per tacere…” (Ecclesiaste 3-11)

Potrei aggiungere alle parole del Profeta, che c’è un tempo per scrivere ed un tempo per smetterla. Però chissà, ora che ho chiuso la parte più importante della mia vita e risiedo un periodo dell’anno a Seattle, la mia Shangri-la, e l’altro periodo in Italia, la mia patria, potrebbe tornarmi la voglia di ricominciare…Mi è parso opportuno, dopo tanti anni di silenzio (cinque?), salutare gli amici lettori e ringraziarli per l’affetto dimostratomi in tanti anni e ancora fino a poche settimane fa. Cosa fa l’Eternauta in America? Segue da grande appassionato il baseball, il basket (alla fine e all’inizio della stagione) e il football. Frequenta le numerose e ben fomite librerie. Si gode la bellezza della natura e della città. Prende nota delle cose da fare, degli amici da salutare nel periodo della permanenza in Italia. Si annulla negli splendidi tramonti. Fa nuove conoscenze americane. E soprattutto pensa. Bilanci? Non ne faccio. Progetti? Chissà …Qui, dove è facile vivere in sintonia con la natura, si può pensare e cercare di capire se, come diceva Malroux, si è riusciti a fare la cosa migliore che può fare un uomo: compiere il maggior numero di esperienze e trasformarle in coscienza. Ancora un saluto dall’Eternauta, e, chissà, arrivederci.
Dido Guerrieri

Proponiamo qui di seguito alcuni brani raccolti dal “Il Taccuino”
ritratto di un gentleman
alla scoperta di una città
alle sei del mattino
una coppia di cioccolatis
è tutto programmato
dieci comandamenti di Jim Mcgregor
un occhiata all’alfabeto
la difesa Karatè
è difficile imitare Diogene
la ragazza col casco
Un grazie alla Truppa
Libri da bruciare
La filastrocca del coach
I passi Perduti
Il Poeta o vulgo sciocco…
I pregi della Musica
In un altra dimensione

Ritratto di un Gentleman
The day after, era finita la regular season,stavano per iniziare i playoffs. Noi della Berloni avevamo due settimane da attendere, prima dei quarti di finale. Cosi mi concessi due giorni di sosta da passare al “Colosseo” di Sesto San Giovannii. con famiglia e gatto. Secondo posto a pari merito con la Granarolo, ufficialmente terzo per differenza canestri. Non c’è male, se pensiamo che abbiamo giocato quattro partite e tre quarti senza Sacchetti, una senza Caglieris, una senza May, tre e mezzo senza Bouchie (e senza Ray, naturalmente) due senza Morandotti, sesto uomo. Pazienza. Bisogna ritemprarsi. Resta solo da sperare di avere Sacchetti per i playoffs. Nei due Day-offs, nei due giorni di riposo, dovetti anche fare i! piano di allenamento pre-playoffs e non fu tanto semplice, senza Sacchetti e senza Morandotti, partito per la Finlandia con la Nazionale Juniores. Cercammo di fare delle amichevoli, che volete che vi dica? E’ inutile lamentarsi, e poi, come dicevano i padri romani, “per aspera ad astra”. Quando questo “pezzo” uscirà, sarà -credo – il 7 maggio. Allora, probabilmente la Berloni ed io avremo deciso reciprocamente se continuare o meno il nostro rapporto di collaborazione. Scrivo con largo anticipo, quindi dovrà essere considerato “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” da chiunque; compreso l’interessato stesso, leggerà quanto mi accingo ora a scrivere, un tentativo di descrizione di Beppe De Stefano, generai manager della Berloni.
Beppe nel basket che conta lo conoscono tutti. Membro di “giunta” della Lega, è senza dubbio una delle menti più illuminate della pallacanestro italiana. Più vecchio di me di un mese, è figlio di un ufficiale dei bersaglieri ed è nato e cresciuto ad Asti, una città dove ha sempre mantenuto la propria residenza ed alla quale è profondamente attaccato. E’ stato goliardo nel senso antico della parola, beffe e bevute; e giocatore di basket -prima nella Libertas Asti, più tardi nella RIV Torino, temutissimo per i gomiti aguzzi che usava senza pietà. Laureatesi in Storia, ha vinto una borsa di studio negli USA dove ha passato qualche tempo. Al ritorno in Italia ha lavorato come funzionario presso diverse ditte, ma quando ha smesso la carica di giocatore ha dedicato sempre più tempo al basket praticamente ideando e costruendo la Saclà di Asti, squadra che ha scalato le classifiche fino alla serie A. Poi ha iniziato il progetto-Torino, ed ecco la Saclà con l’Auxillium di Don Gino Borgogno, ed ecco nascere la China Martini-Grimaldi-Berloni. Questa è stona recente, anzi contemporanea. Tutti conoscono De Stefano, l’uomo compito, il piemontese all’antica, il gentleman che fa tacere tutti quando si alza in un’assemblea e con poche parole centra il problema. O che si alza a metà di un convivio e ringrazia i presenti con stile ed umorismo. De Stefano, che veste con conservativa eleganza, per me somiglia – alto, capelli bianchi, aria distinta, occhiali – ad un professore universitario americano della Yvy League, che so, di Prinecton, Vale, Harvard. Quando poi indossa un suo giaccone impermeabile e calza un Borsalino a tesa un po’ larga, sembra proprio il suddetto professore quando esce, un sabato od un giorno di vacanza, e va a comperare semi per il suo orto od un paio di cesoie per potare il suo giardi no.

Alla scoperta di una città
” Ciao Turin, mi vadu via”
(da una vecchia canzone torinese)

A Torino, come si sa, vivo da solo. Ho un letto superallungato, e fornito di tanto di asse sotto il materasso. Ci sono cioè tutte le premesse per dormire bene, e così avviene, normalmente; ma verso le sei si scatena un traffico infernale e spesso mi sveglio con l’impressione che un autobus sia penetrato con prepotenza nel bagno. E’ ormai troppo tardi – e c’è troppo fracasso – per riprendere sonno, così me ne resto allungato ancora un’oretta ad ascoltare sonnacchioso il fragore di fondo punteggiato dal suono querulodeì clackson e dall’urlo angoscioso delle sirene (abito vicino ad un ospedale); e lascio che immagini ed idee si associno liberamente e pigramente nella mente, neppure certo, a volte, di essere sveglio e di non stare sognando.
Fragore, rumore, fracasso, violenza, cozzo, pugno. …E’ impossibile non notarli, sono tanti e quasi atipie morfologicamente ben diversi dai per certi versi. A volte sembra di trovarsi in un bar messicano. Però i meridionalesi (meridionali-piemontesi) sono silenziosi, quasi timidi, molto sjfati. Quasi che volessero scusarsi di essere Lì. Povere anime, ingaggiate a colpi di treni speciali quando serviva manodopera e adesso che c’è crisi i primi ad essere sbattuti fuori dalle fabbriche. Ormai è inutile che mi ricacci a letto, passerò alle pratiche igieniche e poi andrò in ufficio, torcia doccia ed a questo punto mi manca un « Silivestro che, nella casa di Sesto, ha la sua assaltino in bagno e quando mi vede entrare «te entrare anche lui a fare i suoi bisogni. Oppure guardare affascinato l’acqua del bidet che corre.
Oggi è martedì, alle dieci c’è l’atletica al campo Fiat, Ora che il ritmo è meno frenetico, un allenamento al giorno, due al martedì ed il venerdì devo trovare un pò di tempo e cercare di andare qualche volta in giro a conoscere Torino. E’ già autunno e la collina oltre il Po è spes-ivrsscosfa da una caligine che prelude alla nebbie. Comincerò allora con qualche esplorazione «centro, andrò a fare la prima colazione in un bar antico. Prenderò un cioccolato – a Torino è d’obbligo – anche se mi brucerà le papille della lingua. E poi voglio farmi con calma via Po e entrare un pò in qualche libreria. Cercherò di stare attento, di cogliere un pò di atmosfera, di cominciare a sentire, se non a capire. E’ troppo presto jsrintuire, figuriamoci per capire. Allora, per ora, scoprire. Sono convinto che Torino un cuore ce l’abbia, e bello grande, anche. Devo avere solo la forza di strapparmi dalla routine, guarire dal morbo di Primo, i cui sintomi sono: necessità assoluta di stare in ufficio o in palestra, o in casa, naturalmente.
Devo svegliarmi più arzillo, dormire di più. Metterò dei tappi alle orecchie.

Alle sei del mattino
” E venne l’alba dalle dita di Rosa” (“Odissea”, Omero)

E’ un mattino di aprile, anzi, sono le sei del mattino. Mi sono stancato di rigirarmi come un dannato tra le lenzuola. Sveglio dalle cinque, ho provato a leggere per cercare di riprendere sonno, ma non c’è stato nulla da fare. Questa seccatura del risveglio precoce mi capita di rado, ma se capita non c’è niente da fare. Sarà più lungo il mattino e più faticolo dirigere l’allenamento. Tutto qui. D’altro canto, sono trascorsi otto mesi esatti dal primo giorno d’allenamento (con un intervallo massimo di due giorni, per Natale). Un pò di stanchezza nervosa ci sta. E non è tempo di vacanze e di mare, quello dei playoffs. Per i playoffs bisogna avere nervi di acciaio. E non tanto per preparare e dirigere partite senza appello, quanto per resistere alla pressione che viene esercitata dall’ambiente e dalla stampa. Ormai il basket come tale è sfuggito di mano agli addetti ai lavori. Potrei benissimo non distinguere un canestro da una borsa della spesa, per quel che conta. Quel che conta è, almeno una volta al giorno, stilare, per conto di un giornalista ignoto, la classifica finale (figuriamoci!) secondo le mie previsioni. Al mattino, si sa, bisogna leggere i quotidiani sportivi per tenersi informati. I quotidiani, se non vi sono cronache delle partite, presentano ogni giorno consuntivi, organizzano processi, fanno previsioni o intervistano un personaggio.
In un consuntivo sulla “regular season” ho letto che la mia squadra difende a zona. Su 1210 minuti giocati (in due partite abbiamo dovuto ricorrere ad un tempo supplementare) la difesa a zona l’abbiamo impiegata esattamente 52 minuti. Fate voi. In un altro ho letto che abbiamo sì ceduto Sacchetti, ma l’abbiamo sostituito con Gibson. Forse Sacchetti è americano, e non me ne sono mai accorto: Romeo Little Bag. Ventuno vittorie e nove sconfitte (l’anno scorso ventidue e otto, con un campionato meno difficile e con Little Bag in più). Poco carattere fuori casa (nove vittorie su quindici incontri) L’onta di essere stati sconfitti in casa dal Banco di Roma per due punti. Quando il Simac, squadra – se mi permettete – più forte della mia, dal Banco in casa ne ha beccate ventitré, nessuno si è scandalizzato. Va bene, come direbbe il comico domenicale Massimo Boldi. Cambio un pò giornale, passo ad un quotidiano locale. Qui apprendo che i tifosi torinesi di basket hanno il palato fino, e che per accorrere in massa pretendono almeno la finale per lo scudetto. Poveri cocchi. Palato fino? Sarebbe come se uno, dopo aver mangiato una ventina di volte al ristorante, si mettesse a scrivere un trattato di gastronomia. Da quanti anni c’è il grande basket a Torino? Come direbbe il goliardone quasi vegliardo Renzo Arbore meditate, gente, meditate. Cari tifosi, continuate a mangiare, pardon, volevo dire a vedere il basket, e il palato ve lo farete. E venite a vedere tutte le partite, altro che la finale per lo scudetto! Sono esattamente otto anni di seguito che a Portland, sede dei Portland Trail Blazers, fanno il “tutto esaurito”. La capacità è di 12.666 spettatori, e le partite disputate all’anno sono 41 di regular season, alle quali vanno aggiunte quelle dei playoffs. E non mi pare che a Portland abbiano disputato tutte queste finali-scudetto Magari a Portland cercano di giocare bene, riuscendovi abbastanza. Magari cerchiamo anche a Torino, ed a dar retta ai giudizi lusinghieri di Gamba e di molti colleghi (regolarmente pubblicati dalla stampa) anche noi ci riusciamo. Vi siete accorti che prima del campionato scorso abbiamo ceduto uno dei più grandi tiratori di tutti i tempi, Brumatti, e prima di quest’ultimo campionato il miglior giocatore italiano dello scorso anno, Little Bag? Morandottì, l’Angelo Biondo che fa emettere gridolini di voluttà alle torinesi, l’abbiamo comperato in giro o allevato in casa? Cosa dici, tifoso ignoto? Che sei influenzato dalla stampa, la quale non parla di noi e parla male? Figuriamoci. Vieni e documentati. Cos’è quest’aria di disapprovazione lettore anonimo? Secondo te, uso la mia “column” per scopi personali. Certo, è vero. Perchè i miei colleghi più famosi cosa fanno? Auo parere fanno crociate giornalistiche televisive per il bene della Patria cestistica, o non lavorano per i loro club e per loro stessi? lo, carissimo, non me la sento più di pigliare sberle e porgere l’altra guancia. Quando questo sproloquio verrà pubblicato, probabilmente i playoffs saranno esauriti. E ci saranno nuovi bilanci. Intanto, siete d’accordo o no, io vi dico che di questa Berloni quarantasette vittorie e ventisei sconfitte (inclusi i playoffs dell’anno scorso) sono orgoglioso. Sono matto? Ma è un record alla grande migliore d Blazers, otto anni di tutto esaurito. E poi, chi non è matto alle sei di mattino dopo un campionato come quello 1985? Se tanto mi mi dà tanto i playoffs sarò pronto per andare nel nido del cuculo.

UNA COPPIA DI CIOCCOLATIS
“E spuntò l’alba dalle dita di Rosa” (Omero,Odissea)

Com’è eccitante la vita dell’allenatore! Per andare da Torino a Gorizia impiegammo circa sette ore fra treno, sosta a Milano per coincidenza e pulmann da Monfalcone a Gorizia. Dove poi in compenso perdemmo in un discusso finale. Avevamo un solo americano e alcune decisioni arbitrali – diciamo cosi – non ci sentimmo dì condividerle. Come tutte le domeniche, la notte dormii male, e in più bisognava alzarsi ad ore antelucane. A Ronchi ci aspettava l’aereo per Roma. Al “counter” del’aeroporto esaminano i biglietti e ci informano che comprendevano il tratto Torino-Ronchi. Penso al pomeriggio completo trascorso in treno e mando diversi accidenti a chi so io. A Roma ci fu appena il tempo di passare dall’aeroporto nazionale a quello – poffarbacco -internazionale, poi via verso la Grecia. Era il mio terzo viaggio verso la patria di Omero; il primo fu ad Atene nel 1970 con la Nazionale Juniores, il secondo a Salonicco con la “Militare”; questo era il terzo, ancora a Salonicco dove c’era un torneo con alcune squadre elleniche e – udite udite – la North Carolina University del mitico Dean Smith. Ogni anno a Salonicco si festeggia Dimitros, antico eroe della guerra contro i turchi; avrei preferito non partecipare ai festeggiamenti con la squadra incompleta e malandata, ma tant’è, bisogna sempre onorare gli impegni. Arriviamo ad Atene ubriachi di stanchezza; ci fu un momento di entusiasmo quando prendemmo al coincidenza per Salonicco. Il nome dell’aereo era Telemaco, soprannome dato allo junior Calcagno aggregato per l’occasione alla compagnia. Il tutto nasce dal fatto che, quando Calcagno si allena, è sempre presente la madre che lavora instancabilmente a maglia, e ricorda Penelope. Neanche atterriamo a Salonicco che ci sbattono un mazzo di rase in mano e si presenta il nostro “attacchè”. E’ un laureato in farmacia, ha studiato all’università di Pavia, e si chiama nientemeno che Sofocle, Sofocle ci infila su un bus e ci guida direttamente al Palazzo dello Sport. I giocatori si cambiano a spron battuto ed entrano in campo contro ia Nazionale Greca. Sono le ventuno, guarda caso gli arbitri sono greci, e ce ne fanno vedere di tutti i colori. Quando mi azzardo a protestare, uno dei due (dal nome che suona come Cioccolatis) arriva di corsa con gli occhi da matto, lo lo invito ad esercitare meno il patriottismo, ci puntiamo addosso un dito a vicenda, lui prende il mio e lo punta verso di me, io lo drizzo di nuovo e lo informo dove può ficcarselo. Sul finire dela gara, il cioccolataio si prende cura di noi e ci sistema per le feste. Perdiamo di due, poco male, hanno giocato tutti, anche gli juniores, l’importante è arrivare vivi alla fine del torneo. Sofocle ci accompagna all’hotel dove risiedono le squadre, il Macedonia, il più bello della Grecia. Quando finiamo di mangiare è mezzanotte passata. Riccardo Casalegno, l’accompagnatore, è un pò angosciato; sta calmo, gli dico, dobbiamo sopravvivere fino a quando Di Stefano tornerà dall’America con un altro americano. E campa cavallo… L’Hotel macedonia è vicino al mare, la temperatura è mite, e da quelle bande l’autunno è appena iniziato. Facciamo un giretto in città e mi esercito a leggere le scritte greche. Però il greco moderno è assai diverso da quello antico studiato a scuola. Siamo sconvolti quando apprendiamo che “ape” si dice “sfiga”; particolarmente turbato è il mio secondo quintetto che, come noto, io chiamo “le api di Don Michele”. Spendiamo il pomeriggio assistendo all’allenamento di North Carolina. Quattro assistenti, un massaggiatore, tutto organizzato a puntino. Lo stretching viene eseguito secondo gli ordini impartiti da un registratore. Ma – udite ancora, udite – il leggendario Dean Smith dirige il tutto calzando scarpette borghesi in cuoio con tacchetto, calzoni gialli da passeggio, e camicia giallo-verde. L’olimpionico Smith che si comporta come il più becero degli allenatori nostrani. Gamba sverrà quando leggerà questa notizia. In serata giochiamo con la Stella Rossa. Si, è vero, noi entriamo in campo tutti – anche Telemaco – ma loro sono assatanati e segnano -pardon – anche dal cesso; 67% il primo tempo, 73% il secondo. Zeravica, il coach, mi spiega con noncuranza che quella è la loro normale media. S è vero, me li taglio. Il giorno dopo mi intervista un giornalista di Atene e apprendo che “gatto Silvestro”, cioè il mio Silvestre, è celebre anche tra i lettori greci di Superbasket. In serata affrontiamo il North Carolina; ahimè uno degli arbitri è Cioccolatis. Quando gli americani fanno riscaldamento, lui applaude rapito! Nei primi minuti Morandotti viene quasi stuprato. Al settimo minuto non ne posso più, mi alzo a protestare, i nostro arriva come un razzo e mi da un “tecnico1 Cerco nella memoria una parolaccia greca e gliela sparo in faccia a gran voce, salutato da un caloroso applauso del pubblico locale. Cioccolatis mi espelle e cosi finisce il mio duello con il famoso Smith. Danna prende benissimo il mio posto, alterna tutti i giocatori, e facciamo buona figura. Di ritorno all’hotel mi accorgo di essere diventalo un eroe per i tifosi americani al seguito. Chi rii offre da mangiare, chi da bere. Chi mi invitaa mandare mio figlio a studiare in Carolina. Chi m ricorda numerosi episodi di espulsione di Smith. Le signore mi chiedono di ripetere la famosa parola greca e di spiegarne loro il significato, loto illustro, un pò imbarazzato e loro si sganasciano. Forse mi conviene trasferirmi in North Carolina Si è fatto tardi, e la sveglia per la mattina è prevista per le 6:30. Arriviamo a Torino dopo  dieci ore, passo la serata a visionare un film  partita della Peroni. La domenica c’è poco* scherzare, noi abbiamo un americano solo. Speriamo che De Stefano peschi bene, per qualche partita ancora dovremo arrangiarci, speriamo sempre che non ci arrivi tra capo e collo una coppia di Cioccolatis.

E’ TUTTO PROGRAMMATO
“Crucifige, crucifige … orno che se fa rege…” (Jacopone da Todi)

Tempo e spazio, categorie disinutili, forse interpretazioni derivanti da una realtà diversa da quella che vogliamo vedere. Avanti erasmo da Rotterdam, e l’Elogio della Pazzia, un urrah per Basaglia che ha interpretato diversamente il malato di mente. Ma chi è il malato di mente, e chi il sano; e cos’è la mente, cosa sono il pensiero e la coscienza, già li vediamo rappresentati a colori quando si generano, quando si formano; c’è adesso un bell’apparecchio che spia nel cervello e zac, individua tutto. Sentite un profumo? Ecco che si illumina di rosso una zona cerebrale. Vi arrabbiate? Ale, un’altra zona si colora di verde. Meditate su un problema? Ecco là che il lavoro dei vostri neuroni, delle vostre sinapsi si pone in evidenza, ecco l’energia elettrochimica delle vostre cellule nervose che si sprigiona, ecco enei si forma il pensiero. Computer perfezionati, ecco cosa siamo, hardware e software dentro un input e pronta la risposta, avanti col calcolo binario, via le illusioni di trascendenza, il pensiero è un fatto meccanico, tempo e spazio sono dimensioni superate. Almeno cosi pare, in un maggio apocalittico, cielo nero, pioggia e freddo da battere i denti, la doccia mattutina, un’atto di eroismo (ma la macchina va pulita), al bar viene voglia di una cioccolata calda (la macchina va curata). Anche le leggi meteorologiche sono crollate, è normale. Per un allenatore l’anno è la stagione: precampionato, campionato, tutto programmato, tutto previsto, si sa quando si comincia, si sa quando si finisce. Ma se sei catapultato nei playoffs, a meno che tu non disputi la (inale, gara-tré, spareggio per il titolo, tu non sai quando la fine arriverà, e quando arriva è improvvisa come la morte. Ti rendi conto che attorno c’è gente che ha finito da un pezzo, colleghi, giocatori, tutti quelli che vedevi ai bordi del campo quando ancora partecipavi alla lotta. E salti anche tu nel loro limbo.

E’ questa la stagione dei confini incerti in cui i giornalisti cercano, chiedono, magari inventano notizie. E’questa la stagione in cui i dirigenti contattano o cercano gli sponsor, i manager sondano in colleghi intrecciando scheletri di trattative che poi non saranno chiuse. E’ questa la stagione in cui gli allenatori si preoccupano del rinnovo del proprio contratto, se è in scadenza; o di procurarsene uno, se non ne hanno. Le talpe son già allo scoperto, il lavoro di galleria ormai è concluso. Quest’anno è andata di moda la pre-talpa. I primi movimenti di scavo ed esplorazione sono iniziate in dicembre, pensate un pò. lo, se ho bisogno di qualsiasi informazione o favore da un’altra società, telefono al collega o alla segreteria. Qui atrivano telefonate quotidiane da parte di svariati colleghi e cercano tutti del manager, per i motivi più strani, pensate un pò. Ormai anche le talpe si sono computerizzate, hanno il cervello elettronico, hanno incorporati uffici-previsioni, uff i ci-sondaggi, uffici-di borsa, uffici- di marketing.

Adesso.però, siamo tutti fuori, al sole, sbattendo le palpebre sulle pupille cieche, pronti ad essere preda della faina o della prima volpe che passa; secondo come deciderà il destino, o secondo le combinazioni elettrochimiche delle nostre cellule. Sulla stampa si inseguono i bilanci della stagione ormai esaurita; sono spesso posati, spesso obiettivi, si resiste abbastanza alla tentazione dello scandalo, c’è una certa bonarietà, si cerca di evitare i crucifige a tutti i costi, lo direi che prima di fare il bilancio consuntivo di un club, bisognerebbe anche riesaminare quello preventivo. E allora si potrebbero emettere giudizi più obiettivi. Molti giornalisti sportivi hanno tutta la mia comprensione. Lavorano in quotidiani che da qualche anno hanno sposato la teoria del titolone sensazionale, dello scandalo a tutti i costi, teorie che hanno portato a vertiginosi aumenti delle vendite. I direttori, quindi, spingono in questo senso, cercare il dramma, e trovarsi tra incudine e martello non dev’essere piacevole. Dice: “Ma non fai mai dichiarazioni violente, non fai mai proclami, non mi aiuti”. Amici, avete la mia comprensione ma lasciatemi fare il mio mestiere alla mia maniera. Sono stato programmato così. Inoltre, prima o poi, sarà computerizzato anche il basket. C’è il basket da tavolo, c’è il viodeobasket, tra poco avremo il basket dei robot. E sarà difficile criticare atleti ed allenatori, bisognerà attaccare il programmatore. Ma anche il programmatore è a sua volta programmato e risalendo su e su, sempre all’indietro, arriveremo ai vecchi computer, gli uomini dell’età della pietra. E più indietro ancora al Paradiso Terrestre, Adamo non è stato forse programmato. E il Peccato Originale è nato da una reazione chimica imprevista, o è stato programmato dall’Ente Supremo. E come la mettiamo col libero arbitrio? Non lo so, non ci capisce più niente.

Sono cambiate le stagioni, è cambialo il modo di agire, di comportarsi, di pensare. Infondo, tutto ciò è bello. Non c’è più nulla di certo, tutto è avventura, o forse è stata programmala anche l’incertezza?

I dieci comandamenti di Jim McGregor
“per chiunque prenda in considerazione la carriera di coach”
In un libro intitolato: “Called for travelling”, che acquistai in libreria l’estate seguente a Seattle. Il libro, il cui titolo può indifferentemente significare “Predestinato a viaggiare” o “Fischiato per passi”, mi fece compagnia nelle diciannove ore complessive del viaggio Seattle-Milano. Polo misi da parte. E’ saltato fuori da una cassa giorni la (si sa, l’eternauta ha metà delle sue cose negli armadi e negli scaffali, e l’altra ancora o già nelle casse] e l’ho risfogliato rapidamente. Non so se l’opera sia stata tradotta in italiano; se sì, non voglio rubare il mestiere a nessuno. Voglio Intarmi qui a proporre ai lettori, e soprattutto ai alleghi, quelli che l’amico Jim (attualmente allenatore della Nazionale della Colombia) definisce

1) Sposa una donna ricca. Le scelte della camera basate sul guadagno possono condurre ad una vita di rimpianti.
2) Fatti licenziare il più presto ed il più spesso possibile. Così avrai una straordinaria esperienza nella ricerca di un nuovo posto.
3) Ricordati le regola d’Oro: gli amici sono comportanti delle vittorie. D’altronde, la gente re li lasci alle spalle in un posto, può sempre tìseie ancora là, nel caso che tu ritorni.
4) Adatta la tattica ad ogni situazione. In i-asteria, noi cerchiamo sempre di rubare la pal-i. poi di tirare prima che gli altri si rendano conto :rie ne siamo in possesso e possono portarcela fì. Dal punto di vista dello spettacolo, è meglio, :«————–Ì non teniamo troppo la palla. Prefe-•’amo perdere la partita piuttosto che gli spettaci
5) Non essere una persona troppo buona. “residenti e general manager vogliono buoni allenatori, però tipi che si possono licenziare. Se invano che la gente potrebbe dispiacersi di un vostro licenziamento, non vi assumeranno neppure
6) Preparati un’altra carriera e intanto cerca di impratichirti.
7) Coltiva le relazioni con i giornalisti. Attualmente, è più facile di una volta. Con l’avvento telereporters, un coach può sposare una giornalista.
8) Allenati a sopportare la noia. Allenare con successo, consiste nel ripetere all’infinito noiosi fondamentali. Alcuni giocatori afferrano l’idea “ricevi la palla con tutte e due le mani” la prima volta che se lo sentono dire. Altri non l’afferrano neppure alla centesima ripetizione. Inoltre, addormentarsi durante l’allenamento, è da maleducati.
9) Sii versatile (e qui parla di una curiosa esperienza come allenatore di baseball)
10) Fai cose semplici.

Non è certo l’umorismo che manca al buon Mac, né tanto meno il buon senso. Non c’è dubbio che la carriera di allenatore sia dura e difficile, e che possa essere spesso frustrante. Cresce sempre di più il numero di giovani e giovanissimi appassionati che, con gli occhi stellanti, mi confidano la loro intenzione di dedicarsi alla carriera del coach professionista, lo credo che ognuno debba pensare con la testa propria, quindi mi guardo bene dal dissuaderli. Se mi chiedono un consiglio, do quello di trovare un lavoro che consenta loro anche di allenare. Dopo qualche anno, potranno capire se conviene lasciare il lavoro e tentare la difficile carta del professionismo; potrebbero invece nel frattempo cambiare idea; e un lavoro, al giorno d’oggi, non si trova ad ogni angolo della strada. D’altra parte, allenare non significa guidare per forza la Scavolini o il Billy; ci si può realizzare anche alla guida di una squadra di “C” o di una “giovanile”. Di solito, il giovane coach è affascinato dall’aspetto tecnico del lavoro; beh, gli garantisco che in serie “A” il lato tecnico è solo una parte, e non la principale, del mestiere. Ci sono i rapporti con i dirigenti, con la stampa, col pubblico, c’è la gestione dei giocatori.
Anche a livello-inconscio, si subiscono mille condizionamenti, si è sottoposti a mille pressioni. Il guadagno non è travolgente, la carriera non è lunga (salvo infarti, collassi, trombosi), le ulcere e gli esaurimenti nervosi sono all’ordine del giorno. In alcune città la gente ti riconosce in giro, ma questo può diventare un guaio e non un piacere. McGregor con i suoi “Dieci Comandamenti” ha scherzato, ma la carriera è dura e difficile. Cosa dite, ragazzi: “Non vi interessa, volete provare lo stesso?”…Bene, fate come volete. D’altra parte, l’eternauta ha fatto, tanti anni fa, la stessa scelta.

Un occhiata all’alfabeto
Han fatto un dizionario a quattro mani Rigatini e Pantani vent’anni alla bisogna stiero chini Fanfani e Rigatini. Battete, deh, battete ora le mani al celebre Fanfani gli applausi, orsù, largite o cittadini al dotto Rigatini.
(da “14 moschettieri” di Nizza e Morbetti)

A: Arbitri – Poveretti, ne hanno già di tutti colori da guardare adesso dovranno vedere con la regola “mano e palla” sul tiro. Figuriamo: cosa succederà. E quelli delle categorie giovanili, che invece di preoccuparsi di far pratica su passi e i tre secondi, andranno a caccia della» fesa a zona?

B: Serie dove il masochismo impera.Tra, dirigenti e gli allenatori un profluvio di squadre. soldi spesi in quantità, un campionato lunghi» mo, e solo due promozioni.

C: Contropiede – Senza quello non a w ce. E si addice al nostro temperamento. Cornei quello degli spagnoli che però lo sfruttano di più e meglio.

D: Difesa – Con il bonus ad otto falli, tanti saluti alla difesa a uomo. Dice, mach! ha proposto la modifica al regolamento, aveva buone intenzioni. Ma di buone intenzioni è lastricato l’interno.

E: Etemauta – Autoqualifica copiata da un lurneito. che mi sono imposto. Ne farei volentieri a meno, ma, se sarà necessario, continuerò a girare fino alla morte.

F: Finta – Un’arte che va scomparendo. Ditemi per esempio quanti giocatori conoscete che, prima di passare la palla, guardano in direzione opposta.

G: Gavetta – Molti giocatori e allenatori nostrani ne hanno fatta poca. Nel nostro sport val più la pratica che la grammatica, i giovani fenomeni sono come l’araba fenice. Prendete un’annuario della NBA e guardate l’età dei migliori giocatori e dei migliori allenatori. E in Italia?

H : Hicks – E’ un personaggio che merita l’ALA vederlo, sembra un americano degli anni Cirtquanta, uno dei tanti soldati o marinai rimediati nelle basi militari di Livorno o Napoli che militavano m tante squadre italiane. Tiratori come lui se ne sono visti pochissimi, è lento ma si fa trovare sempre smarcato, e da due come da dieci meln non sbaglia un colpo, una specie di Bob Morse.

I: Italia – Nazione in profonda crisi economica, ma in quanto a basket medaglia d’argento olimpica e sede della seconda, quanto a importanza, lega professionistica mondiale.

J: dura – Che era dato per grasso e demotivato. E invece è magro e nevrastenico al punto giusto, com’è suo costume. Sarà per gli allenatori avversari un autentico “pain in thè ass” che traduciamo liberamente con spina nel fianco.

K : Kant – Filosofo idealista tedesco, le cui opere sono oggetto di studio e lettura normale per i giocatori strani. Kant, Diabolike, Tex Willer, Ina de aurea dei filosofi cui s’ispirano i nostri bastonieri.

L: Livorno – Una piazza che si riaffaccia alla ribalta della pallacanestro italiana dopo anni passati dietro le quinte. Livorno nel passato ha prodotto personaggi come Bibi Formigli e Vinicìo Mesti, è stata patria putativa di Stelio Posar. Bel palasport, buone tradizioni, buon pubblico. Bene.

M: Morte – Che, come ognuno sa, non è il peggiore di tutti i mali. E’molto peggio: 1) retrocedere, 2] non essere ammessi ai play-off, 3) sbagliare il giocatore americano, 4) non sedersi immobili in panchina quando un arbitro lo intima.

N: Nano – E’ così chiamato qualsiasi giocatore inferiore al metro e ottanta. E’ difficile per un tale cittadino essere preso in considerazione da un allenatore. Normalmente, a un nano veloce, intelligente, aggressivo e buon tiratore, viene preferito uno spastico, però alto un metro e no vanta due.

O: Ottico -Artigiano specializzato, che viene a tutt’oggi snobbato da molti arbitri che avrebbero invece bisogno di consultarlo frequentemente.

P: Paratore – II più anziano e illustre tecnico italiano, tornato di moda da qualche tempo dopo un periodo passato nell’ombra durante il quale è stato considerato 1) vecchio, 2) sorpassato, 3) rimbambito. E lui da la paga a tutti.

O: Quorum – Difficilissimo da calcolare nel basket. dove esistono variabili impazzite, come un infortunio, un arbitraggio avverso, un giocatore abbandonato improvvisamente dalla morosa. Nel 1979 per essere promossi in A1 furono necessari 32 punti in classifica; nel 1980 con 34 punti non si è ottenuta la promozione.

R: Recion – Titolo nobiliare veneziano che i tifosi lagunari confluiscono a gran voce all’Arsenale ai giocatori avversari quando lo speaker ne scandisce i nomi.

S: Small – In inglese Piccolo. E’ bene sapere, se si vuoi essere alla moda, che i ruoli ad esso non sono più playmaker, guardia, ala e centro ma point guard, guard, small forward, power forward, center (guardia di punta, guardia, ala piccola, ala grande, centro).

T: Talpone – Mitico (ma non troppo) animale roditore coi baffi. Ci vede benissimo e non è affatto cieco. E’ un termine mutuato dalla lingua livornese dove di pronuncia “(arpone” con la R. E’ quello che in Veneto viene chiamato pantegana, in italiano ratto.

U: Utility man – Così gli americani chiamano quei giocatori che non spiccano molto ma che fanno un grosso e prezioso lavoro. Per fare degli esempi italani, citiamo fra gli altri Zin, Ardessi, Pierich, Andreani, chiedendo perdono agli innumerevoli qui non nominati.

V: Vittoria – Un obiettivo primario nello sport. Spesso ottenuta ad ogni costo, calpestando magari qualche principio morale di troppo.

W: Wanted – Cioè ricercato. Si ricercano in questo momento: 1) Giocatori che giochino per la gloria, 2) Massaggiatori che non siano convinti

La difesa “Karatè”
Se fra i cittadini c’è un pugile valente uno bravo nel pentathlono alta lotta non per ciò gode la città di buon governo (Foclide)

I ritmi circadiani, in parole povere, sono i ritmi biologici, seguendo i quali il nostro corpo esplica le proprie funzioni, dunque vive. Il ritmo dell’uomo normale, lino all’estate scorsa era di circa ventiquattr’ore. Dico fino all’estate scorsa, in quanto la passione per lo sport ha distrutto il ritmo circadiano dell’italiano medio. Tutti coloro che seguirono le trasmissioni televisive in diretta da Los Angeles (camminano ancora adesso come zombies) hanno sonno di giorno, si svegliano la notte, hanno appetito sempre, o mai. Per quanto mi.riguarda, sonno ne ho perso poco. Dopo aver vegliato per seguire la cerimonia di inaugurazione, mi sono guardato bene dallo star sveglio in seguito: agosto è mese di allenamenti, e non è d’uopo addormentarsi in palestra. Personalmente ho assistito a due Olimpiadi: quella di Roma nel 1960 e quella di Monaco nel 1972, quando ero assistente allenatore di Primo assieme a Cenoni e Benvenuti. L’Olimpiade, ve lo dico io, è una grande ipocrisia; il giuramento iniziale è uno spergiuro vero e proprio.
Di dilettanti, nemmeno l’ombra. Per di più, ora l’antica manifestazione nata in Grecia non è altro che un gigantesco affare commerciale, sponsorizzazioni palesi e nascoste, diritti televisivi, e chi più ne ha più ne metta. Inoltre è un’occasione politica; una volta la boicottano i Paesi del Terzo Mondo, una volta gli Stati Uniti, una volta i Paesi dell’Est. Per me l’Olimpiade è morta da un pezzo. Si disputino ogni quattro o cinque anni, in sedi accuratamente separate, i campionati mondiali open dei vari sport. Meglio per tutti. Fine del nonsenso. Ma è possibile che all’Olimpiade gareggino quelli del dressage, che non ho neanche capito bene in cosa consiste, e non sia ammesso il tennis, che è giocato anche dai cannibali? C’è il nuoto sincronizzato, e perché no il football americano? E la medaglia nel tiro alla pistola da sei metri e mezzo, sai com’è importante!
Al livello delle Olimpiadi si tengono i nostri quotidiani sportivi. L’italiano come lingua è un antico ricordo. Vanno di moda i titoli che iniziano col “che”, roba da far rivoltare Dante e Manzoni nella tomba. “Che bravi gli azzurri!”. “Che gara la Simeoni!” “Che vergogna nella staffetta!”.
Dice, ma con questo stile vendiamo molte più copie. Se il problema è questo, se ne potrebbero vendere di più con foto di famose attrici svestite pubblicate in prima pagina. Oppure si potrebbero compilare le edizioni regionali in dialetto la Dorio la gà vinc/ù millesinquesento metri” “Pavoni nun è trasuto in finale ” “La Nazionale de pallavolo ha piato la medaja de bronzo”.
A proposito di medaglie, si sono esaurite (almeno spero) le polemiche inerenti il piazzamento ottenuto in classifica dagli azzurri del basket a Los Angeles. Hanno parlato tutti, mi permetto anch’io qualche considerazione 3 ruota libera:

1) Olimpiadi o non Olimpiadi, attualmente nel mondo la classifica è: I USA – II URSS – III ITALIA.

2) Ancora una volta si è visto che o meglio arrivare alle manifestazioni internazionali direttamente dal campionato o quasi. Se il periodo intermedio è troppo lungo, si va fuori forma. Con tre settimane c’è tempo per un breve riposo e permettere a punto ogni cosa.

3) Non siamo gli USA e non lo saremo mai. In campionato, noi allenatori ci regoliamo nel preparare i piani tenendo conto del tipo di gioco che lanno le altre squadre, e del gioco più adatto alla nostra. In campo internazionale si hanno meno notizie, ma bisogna adattarsi un briciolo di più. Il basket non è la Bibbia. “Queste sono le mie leggi, io faccio così”. Sì, faccio così se posso.

4) Bobby Knight è un grande allenatore (che a me sta sulle scatole) ma se allenasse in Italia sarebbe più flessibile. Nelle nostre squadre giocano americani, nazionali, ultratrentenni, juniores, lutti insieme. Non possiamo e non dobbiamo scimmiottare gli allenatori americani. Loro allenano gruppi omogenei di universitari o semiomogenei di professionisti. Che sono giocatori super.

5) Per la centesima volta, si è visto che in campo mondiale non è permesso ai nostri giocatori di difendere a spinte e schiaffi (come l’innocente Gamba ha rilevato). E quando vengono puniti dagli arbitri, i nostri modelli si incacchiano pure. Quella che i nostri arbitri concedono, coartati da buona parte delia stampa, che si ispira ai detti di colleghi ed interessati, non è difesa, è Karaté. Se quella che vedo esaltare è difesa Virile”, ebbene alla Berloni useremo una difesa “tipo gay”, ma certamente più corretta. Oppure si forniscono ai giocatori guantoni da boxe, e allora ce la vediamo con tutti.

 

E’ difficile imitare Diogene
Hai fatto mai all’amore? Padre sì, con l’allenatore”
(dall’Inno degli allenatori della Val D’Aosta)

Alla fine – o quasi – dei playoffs, il CAF organizzò una “tre giorni” a Bologna, riservata agli allenatori di Serie A, maschile e femminile; si trattava di esaminare il regolamento, indi, alla luce del campionato appena concluso e delie relative esperienze, proporre agli arbitri un’interpretazione giusta e soprattutto corretta. “Si bandisca il gioco duro – si esclama qua e là -.Aiutiamo gli arbitri a reprimere le scorrettezze mascherate o spacciate per gioco maschio”. I colleghi che hanno giocatori che praticano il karaté travestito da Body Check, e che fanno i blocchi col gomito avanti, non potendo disporre di un coltello, sono i più scatenati: “E’ una vergogna – si proclama – si restituisca la pallacanestro alla tecnica: di questo passo, dovremo andare in campo coi guantoni da boxe”. Musica per le mie orecchie: ma, a sentire i colleghi, i miei giocatori i cazzotti, le gomitate e le spinte se le debbono essere dati da soli. A furia di parlare di “difesa virile” e “gioco maschio”, chi non pianta un gomito nelle costole ad un avversario o non gli molla una ginocchiata nel quadricipite, si sente un finocchio.
Una volta erano temutissime le squadre russe: oddio, si diceva, quelli ci fanno neri di botte. Adesso i russi li facciamo diventare neri noi. Si mormora da sempre che per la difesa noi ci ispiriamo all’America. Adesso però non si può più imbrogliare nessuno la televisione la guardano tutti, a Torino magari non sanno la formazione della Berloni, ma quelle dei Washington Bullets o dei Kansas City Kings, la conoscono tutti. Nella NBA tutti temono il trio dei Bullets (Mahorn, Ruland e Ballard) specialisti in gioco duro. Beh, spediteli qua, li sistemiamo noi in quattro e quattr’otto. Mah, adesso tutti sembrano convelliti. E’ vero che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Ad ogni modo, meglio quello che niente. Cosi si stila un documento e si nomina una commissione che poi fungerà da messaggera presso il GIÀ ed il Presidente Federale (bono, quello – N.d.R.).

La riunione, ben diretta da Costa, Taurisano e Todisco, rallegrata dalla presenza di Nini Ardito, i strutto re del CIA, fu però disturbata da un continuo va e vieni. Chi doveva telefonare e chi ricevere telefonate. Ogni tanto, due colleghi si appartavano e si scambiavano notizie su giocatori da acquistare e panchine (ormai agli sgoccioli) da conquistare. Ad un certo punto, fui tentato di appiccicarmi un cartello con scritto: “Per informazioni sui miei giocatori (disponibilità, prezzo) rivolgersi al mio manager”. Pensavo anche che, non avendo ancora firmato il contratto per l’anno nuovo, se si fosse sparsa la notizia, vi sarebbero stati tali sprint verso il più vicino telefono, degni dei velocisti olimpici.

Lajos Toth, con la sua faccia da gallone simpatico, era l’unico che non veniva guardato con sospetto quando andava a telefonare: tutti erano a conoscenza delle sue attività commerciali con l’Ungheria. Un gruppo di noi risiedeva al Gardert: il “Barone”, il “Gattone”, il “Playboy”, il “Talpone”, “Don Lurio”, “l’Alpinista”. Dopo cena giochiamo a ciapanò, e alla prima presa che faccio il Talpone, per non perdere l’abitudine, mi rifila un asso fuori via. Si va una sera a cena con Dino Costa a Casalecchio: vengono con noi anche Oscar Eleni e Claudio Pea; e Gianni Asti ancora ingenuo, racconta le sue traversie a Claudio. Quando gli spieghiamo che il buon Pea è quello che provocò il silenzio-stampa della Nazionale di Calcio al “Mundial”, Asti sviene mentre il suo interlocutore sghignazza malvagiamente. Negli intervalli e nei momenti più impensati salta fuori come un diavoletto di Cartesio Gigi Porcili che spara scongiuri sul muso di chi gli fa complimenti e auguri, Nessuno osa chiedergli un biglietto per la partita. Scherzi e battute se ne fanno a josa; chissà cosa penserebbero i nostri giocatori se ci vedessero e ci sentissero. Per la verità, chissà cosa pensano di noi in generale. Fuori, sembrano vecchi goliardoni che si ritrovano per una cena vent’anni dopo il conseguimento della laurea. Dentro, ci sono ferite aperte e vecchie cicatrici. Troppe ne abbiamo viste. Così ad occhio, vent’anni fa, il sottoscritto allenava il Fori) in serie B, il Barone giocava a Milano in serie C, il Talpone era a Gorizia, l’Alpino dirigeva il settore giovanile a Cantù, il Gattone faceva il giocato re-allenatore a Casale, Don Lurio allenava TASSI Brindisi. Tutti, meno bravi di adesso, ma tutti più sinceri. Il Vecchio Eternauta non aveva ancora salpato le ancore per il primo viaggio. Caro Diogene, un giorno o l’altro mi attrezzo con botte e lanterna, proprio come te, e mi metto a cercare l’uomo. Un’impresa sempre più difficile, ogni giorno che passa.

 

La ragazza col casco
Non ti potrò scordare piemontesina bella …. (da una celebre canzonetta)

All’inizio dell’estate due terremoti scossero il mio club. Per questioni di bilancio venne ceduto Meo “Magie” Sacchetti, capitano e colonna della squadra che si era classificata terza. Le fondamenta ancora traballavano, quando arrivò una nuova scossa che fece impazzire gli strumenti sismografia. Beppe Di Stefano, vero “factotum” della società, piemontese al cento per cento, deciso che era ora di piantarla li col vino rosso, e di dedicarsi un po’ alla degustazione del bianco frizzante; raccolse armi e bagagli, e passò alla corte dei fratelli Benetton, nel lontano oriente cestistico italiano. L’avvenimento mi sbalestrò non poco, e mi venne la tentazione di continuare le mie esperienze di eternauta, piantando baracca e burattini, e facendo vela verso un’altra direziona. Poi pensai all’anno trascorso a Torino, al club che mi aveva trattato bene, ai giocatori che avevano lavorato con me, ai nuovi amici che mi ero fatto. Alla città capitale dell’automobile che mi aveva permesso di non guidare la mia per un anno intero; alle cose ancora da fare con la squadra appena abbozzata in un anno; alia vita tranquilla – in tuta dalla mattina alla sera – che avevo promesso di interrompere con qualche puntata mondana: in un anno mai ad un concerto, mai ad uno spettacolo. Pensai agli amici nuovi • chi ha detto che i torinesi sono scostanti? – con cui avevo spartito conversazioni impegnate, o scherzi e risate fino a sentirsi male. Perfino Silvestro, in un paio di apparizioni via auto e gabbia, aveva mostrato di gradire la sistemazione. Allora accettai la riconferma, annodando saldamente la fune della mia mongolfiera al comignolo di Via Turati 25/4, e preparandomi alla nuova avventura. In sede si vissero momenti febbrili, ci fu il momento del passaggio delle consegne; arrivò il nuovo manager, Alberto Petazzi, meno male, ci conosciamo da una vita, il trapasso – pensai -sarà meno doloroso. Beppe Di Stefano si fermò un poco a Torino per introdurre nei giusti meccanismi il collega. La confusione, fatalmente, raggiunse il parossismo. Petazzi si installò nel suo ufficio, e Beppe si piazzò nel mio. Tramontò ogni speranza di usare il telefono. Ogni tanto si spalancavano contemporaneamente, i due uscivano, si incontravano a metà strada, e cominciavano a parlare fitto fitto. Proposi che si telefonassero da un ufficio all’altro, e il suggerimento fu accettato. Un flash. Scena: porte dei tre uffici (manager, allenatore, segreteria) chiuse. Nella saletta-riunioni, uno dei segretari, Cecioni, riceve due dirigenti di una piccola società. Nel corridoio siede Celenza, un giovane “acquistato” da Vasto, e ascolta me e l’assistente Danna parlare con Lady Pessina, e il figlio Davide, un altro nuovo giovane. Di colpo si spalancano le tre porte chiuse, e schizzano fuori: 1) Petazzi; 2) Beppe Di Stefano; 3) Mario Di Stefano, capo della segreteria, preceduti da una ragazza con zaino e casco da motociclista. Chi fosse, l’ignoro tuttora: giuro tuttavia che tutto ciò si è verificato in sede-Berloni, non nel film “Helzapopping” (per i meno giovani) o in “Animai House” (per i più giovani).
Poi passarono i giorni e piano piano le tessere cominciarono ad andare al ioro posto. I weeks furono al fine liberi, cosi ho avuto l’opportunità di visitare, in un paio d’occasioni, un nuovo pianeta. Sono stati infatti introdotti dagli amici coniugi Casalegno nel mondo della piola, che in piemontese significa osteria, come quella (con annesso campo di bocce) che sorge sulle rive del Po, vicino al cimitero di Sassi. Ci si siede all’aperto, col litro di vino o la gazzosa, e si gioca a scopa. Si conoscono tutti, ma se non si conoscono non importa, tutti parlano con tutti, ii pensionato col lattoniere, l’avvocato con l’imbianchino, la professoressa con la domestica ad ore. L’atmosfera è da utopia, si intavolano discussioni su qualsiasi argomento, e tutti partecipano. E’ come l’areo ps di esercitazione retorica su antiruggine sia la migliore, op disastrosa per il raccolto delle e La lingua ufficiale è il dialE ancora mi sfuggono, però mi sfc gressi. Quando viene l’ora di cena tito siede attorno a un lungo lave del giorno, che so, acciughe, coniglio, peperoni; e naturalmente della casa. Se è sabato, all’imbrunire pia di suonatori – marito alla chit fisarmonica – e si balla il liscio, li è un piacere, e l’allegria cresce. si ringalluzziscono. Il conte Danc ma con discrezione. “Cianuro” – così chiamato di tutto – a volte è un po’ pesante, rio, il baffuto Sor Michele, un e> ha combattuto a Dien Bien Phu, solo sguardo. Si ammirano tersicoree di “Ombre Rosse”, cor metri, che somiglia a Gary Coop soprannome alla predilezione pe casa. Ormai parecchi sono su di g e le battute, ma tutto resta conte limiti: Sor Michele controlla. Si fa tardi, i suonatori ripo menti, si respira l’aria fresca che sale in macchina, si torna a casa fo nel mondo genuino della piola, eguali, dove lutti sono amici, do\. dire la sua, dove si parla di Platini centi, di politica e di religione, di vi Si, ci sono ancora molte cos a Torino.

I fratelli della panchina
(Formazione delle api della Berloni)

APE MARIA-BARBERIS
APE TERRONA-GUZZONE
APE NOBÌLE-DELLA VALLE
APE BABY-MORANDOTTI
APE DOTTA-MANDELLI

Nella nostra squadra, la Berloni, tutti hanno la possibilità di giocare nei primi cinque: per adesso, tale possibilità è stata data ad otto giocatori su dieci. Tuttavia è noto che, per ora, “l’idea di starting five” è composto dai tre azzurri e dai due americani. Da molto tempo ho battezzato gli altri cinque “le api”. Loro sanno come si sta in panchina, e una volta, molto spiritosamente, mi hanno regalato un grosso fischietto con su incisa la frase: “If you want me, whistle” (se mi vuoi, fai un fischio). Fa parte del dovere di un buon giocatore saper star bene in panchina. Alle mie Api dedico questa traduzione di un’intervista fatta da un giornalista americano alle riserve dei Los Angeles Lakers nel 1980. Le riserve, auto battezzatesi “I fratelli della panchina” erano: Brad Holland, Oliver Mack, Michael Cooper, Marty Byrnes (attualmente in forza alla Vicenzi) e Don Ford (l’anno scorso alla Berloni). Ecco il testo dell’intervista:

1 fratelli della panchina hanno un capo?
“Cooperi”Ford è il nostro capo. E’ il nostro Eroe. E’ il Presidente”.”
Avete posti fissi in panchina?”
Ford: “No, ma so la squadra sta andando bene, non li cambiarne. E’ il protocollo. Quando i Molari vergono sostituiti, ci spostiamo, perché chi esce vuole sedere all’estremità della panca. Non epiacevole farsi sudare addosso. Specialmente se dobbiamo fare due o tre partite in trasferta, e non c’è il tempo per farsi lavare l’uniforme”.
” Qual è il posto migliore?”.
Ford: “Quello più lontano dal coach”. ^’-‘” Ai miei tempi i giocatori litigavano per sedere vicino al coach”,
Holland: “Qui avviene il contrario”.
” Perché quel posto è il migliore?”.
Byrnes: “Non devi chiedere l’acqua o il tè, (i puoi prendere da solo. Però ci sono anche degli svantaggi. Al Forum c’è una cheerleader che non tornai visto perché siede nello stesso posto ad ogni partita, è impossibile vederla dall’estremità della panchina”.
Ford: “Quando siedi in fondo alla panca, puoi fare commenti senza essere sgridato. In realtà. se la panca è molto lunga, puoi appena udire il coach quando ti chiama”. “Ford, quando coach Westhead sostituì Mertney, ti chiese di sedere vicino a lui: In difficile MJ te adattarti?”.
Ford: “Gli dissi che non sapevo se avrei potuto divertirmi a guardare la partita da un angolo differente”,
“Durante l’incontro cercate di notare cosa era la strategia e l’andamento della partita?”. Ford: “Se capissimo qualcosa di strategia e tattica, saremmo noi i titolari. Cerchiamo di incoraggiare un pochino gli altri, gridando cose come: “Bravì! “o “Forza!”.
“Come sono i tifosi che siedono dietro le panchine?”.
Ford: “Si possono stabilire relazioni con loro. A Portland mi parlano molto. Veramente, mi gridano dietro molto. E’ divertente, finché non cominciano a lanciare qualcosa. Sono già stato  con birra, ghiaccio, cose cosi”.
“Che tipo di commenti fanno?”.
Ford: “Dicono cose come: “Vedrai che ti farà mirare. L’anno prossimo” oppure: “Qual è il tuo ruolo quest’anno, Ford? quarto o quinto cambio?”.
Byrnes: “L’anno scorso Kelley stava giocando male e fu mandato in panchina. Un tifoso gli porse un sacchetto di pop-corn e gli disse “Toh, mangia. Tanto non entrerai più” .
“Byrnes, come trovi questa panchina, rispetto a quella dei Jazz che frequentavi prima?”.
Byrnes: “Questa è un po’ moscia. Su quella dei Jazz si scherzava di più. Ero seduto in rondo alla panca, e un compagno piazzato tre posti più in là, tenendo le mani attorno alla bocca per fare una voce diversa gridò: “Byrnes! Byrnes!”. lo scartai verso il coach, ma naturalmente non mi aveva chiamato”.
“Sono comode le panchine, al giorno d’oggi?”.
Ford: “Houston ha una panca molto comoda ma stretta. Questo è spiacevole quando sei in trasferta da un po’ e le uniformi puzzano. Quella di Detroit non va bene. E’ troppo bassa, e ti trovi le ginocchia sotto il mento”.
Byrnes: “La cosa peggiore è quando sei in vantaggio di 12 punti con un minuto e mezzo alla fine, e l’altra squadra ha ancora tre sospensioni da chiedere. Ti tocca alzarti e sederti continuamente”:
Ford: “Ti possono venire i crampi alle gambe”.
Parlando di sospensione, dove si piazzano i Fratelli della Panchina durante i time-outs?”.
Byrnes: “Dipende da dove è piazzata la telecamera. Se è possibile, cerchi di farti inquadrare. Sempre se è possibile cerchi di mostrare una mano fasciata od una ginocchiera, così la gente capisce perché non stai giocando”.
Holland “Mack tiene la testa bassa come se stesse attento, ma con gli occhi guarda su in tribuna”.
“Vuoi dire che guarda le ragazze?”
Ford: “L’altra sera ho visto Holland contorcersi cosi (piega il busto in avanti e guarda all’indietro tra le gambe), II coach pensa che Brad fa lo stretch per esser pronto ad entrare in campo, ma lui guarda le ragazze, sia pure da! basso in alto”.
“Passate molto tempo a guardare le ragazze?”.
“I titolari lo fanno quando sono in panchina, non hanno tempo di farlo mentre stanno giocando. Noi abbiamo più tempo, e centriamo le persone giuste”
“Esiste un’Arca della Gloria, nei fratelli della Panchina?”,
Byrnes: “Per me il più grande è stato Arcore James. Controllava tutto, sul campo, sulla panchina

Un Grazie alla truppa
“Where have all the heroesgone?”
(da una canzone di Woody Gulhrie)

La Granarolo vince abbastanza inaspettatamente a Torino, e da un secondo all’altro il campionato per noi è finito. Questo succede nei Playoffs: una sconfitta, e da un momento all’altro la stagione è conclusa. Solo allora ti rendi conto che la squadre – il maggior numero – hanno finito da un pezzo, e che l’anno scorso in questo periodo stavi partecipando ai vari tornei postcampionato. Piombi dall’attività più’ intensa e ininterrotta (abbiamo iniziato il primo agosto; nove mesi e mezzo continui di lavoro) in una specie di nirvana. Occorre qualche giorno per m-ganizzarsi mentalmente; sembra un fatto strano non vedere quotidianamente i giocatori. I giocatori, gladiatori di ci eco-basket, soldati di una guerra senza morti, ma non certo incruenta, fratture ed ematomi, tagli e distorsioni, denti spezzati ed interventi chirurghici. Dove sono andati i giocatori, dove sono andati i soldati? Non li vedo da due giorni e già mi mancano. Non sta a me fare un bilancio tecnico della stagione della Berloni. Non so ancora quali saranno i giocatori confermati. Però so che quelli che hanno giocato nella stagione appena terminato già mi hanno lasciato un vuoto dentro, e sono pieno di rimorsi perché non so se ho dato loro abbastanza sul piano tecnico e quello umano.
Antonio Guzzone, ancora Junior, studente universitario, tarantino, potrà sfogarsi a giocare a Grado, nelle finali nazionali juniores. Ha passato l’anno marcando in allenamento Vecchiato, un compito poco divertente. Anche perché Vecchiato in allenamento non ha pietà per nessuno e chi entra nella “tonnara” (così chiamo l’area dei tre secondi) viene sottoposto da Renzo ad inesorabile mattanza.
Stefano Barberis, l’ape per antonomasia, siala lottando con la gola. Una decina di giorni di riposo potrebbero costargli cinque chili in più se non saprà stare attento. Si macererà nell’astinenza leggendo il suo prediletto “Lupo Alberto” e cercando di convincersi che deve dedicarsi di più alla ditesa.
Carlo Della Valle, lui da (are ne avrà a sufficienza. Trafficherà col suo negozio di dischi di Alba, andrà un po’ in giro a sentire concerti Rock, chiacchiererà con fratello Ferruccio, con cui divide l’appartamento. Mio preferito “Whipping boy” (come dicono gli americani) “Materasso delle botte” (come dicono a Forti) dovrà l’anno prossimo decidersi a tirar fuori sempre il molto talento che ha, e non saltuariamente.
Piero Mandelli non ha problemi su come impiegare il tempo libero. E’ quasi laureando in medicina, un uomo serio con poche distrazioni, qualche lettura e un po’ di enigmistica. Un esempio per tutti, in allenamento, in panchina, in campo.
Ricky Morandotti, adesso ha la patente e una macchina d’occasione, è un cuor contento. Fa qualche giretto qua e là, e poi non è a riposo. Anche lui si allena con la squadra degli juniores. pronto per essere la grande attrazione di Grado,
James Ray è già partito con la moglie, hanno un bambino che li aspetta in America, tante cose da fare, tanii problemi da risolvere. Un uomo bello e giovane, dotatissimo atleticamente, che a volte si comporta come un cane bastardo, fa un errore e si abbatte, bisogna rincuorarlo come si fa con i bambini.
Scott May l’orso Yogi, è a Bloomington, Indiana. Ha un figlio di un anno, e un paio di partite da fare contro la nazionale olimpica USA; una nelle file dell’Indiana AH Star e una con la nazionale olimpica USA di Montreal. Se la pubalgia si deciderà a dargli requie.
Charlie Caglieris si cura ancora per qualche giorno la coscia infortunata, insegna educazione fisica all’orario ridotto, accompagna i figli all’asilo, legge con attenzione tutti i giornali e le riviste che gli capitano a tiro. Un vecchio furetto sempre pronto alla battuta come un passaggio folgorante.
Renzo Vecchiato, ne sono certo, si alza presto alla mattina e va a correre. Lui è quello che gli americani chiamano un “Workaholic” un lavoratore indefesso. Ha dovuto portare il mondo sulle spalle come Atlante, un campionato e quattro partite dì piayoffs se giocate senza un sostituto, senza un attimo di respiro, prima con una tendi nife dolorosa ad un ginocchio, poi addirittura con un braccio talmente gonfio da essere impossibilitato a stenderlo. Poche parole, ma sempre argute, pronuncia il “re della tonnara”!
Meo Sacchetti capitano generoso, sarà già all’opera con Vecchiato, e poi avanti e indietro a procurarsi cassette per il suo videoregistratore, ad accompagnare la moglie Olimpia a scuola, a coccolarsi la piccola Alice. Romeo è l’unico uomo al mondo che nessuno può odiare. E’ troppo buono.
Anche Steve Bouchie. l’indimenticabile Orzoro, si dedica ad alcune opere: in questo momento aiuta il padre nella sua fattoria dell’Indiana, 300 acri, meloni e granturco.
Nove mesi e mezzo di duro lavoro, di sacrificio, di acciacchi, di dolore fisico, di arrabbiature. Un terzo posto che lascia la bocca amara ma la coscienza soddisfatta, la coscienza di chi sa di avere dato tutto. Una città fredda verso il basket che ha cominciato a dar segni di risveglio, che vi ha apprezzato. Una stampa che vi ha seguito e che ha saputo riconoscere quanto di buono avete fatto.
Riposate un po’ e preparatevi al futuro. I tre azzurri, all’avventura Olimpica. Gli altri al loro destino cestistico, con la Berloni, mi auguro.
Il vostro nocchiero, il vostro capitano di ventura vi ringrazia e vi abbraccia. In un periodo della mia vita in cui sono saltati tutti i riferimenti, tutte le mie certezze, m cui tutto mi appare effimero o minaccioso, voi che siete stati i miei soldati, restate i miei eroi

Libri da bruciare
The Pony Express on the Chilsom Trail… ” (da una canzone western)

Dopo qualche mese di calma, ecco il Direttore di nuovo angosciato. A tutt’oggi, di tre articoli spediti in tempo, non ne ha ricevuto che uno. Si sa, per Pasqua c’è un ponte (lungo), ed appena finito il ponte ne è cominciato un altro (abusivo), in occasione delle partite di Coppa dei Campioni e Ut FA di calcio. Tutta l’Italia in movimento: a Torino ho visto pullman di tifosi provenienti da Ragusa. Qualcuno avrà chiesto le ferie, qualche altro si sarà dato ammalato. Fra costoro, chissà quanti postini.
Non voglio però incolpare questa simpatica categoria. Ho conosciuto simpatici postini veneziani, per tradizione e necessità appiedati, di lemperamento giovanile e naso paonazzo, dediti a consegnare la posta fino all’ultima cartolina e all’ultima “ombra” di bianco tracannata nei “bàcari” (osterie), insidiosamente disseminati sul lungo cammino.
Quando ero fidanzato ed abitavo a Roma, mia moglie decise di scrivermi una lettera. Donna di grande virtù ma notoriamente disattenta, ricordava il nome della via ed il numero civico. Aggiunse alla lettera una perfetta planimetria con l’indicazione della strada della casa, con ulteriori spiegazioni per il postino. Cosa scrisse sulla busta come indirizzo? “Al postino di Piazza Zama-Roma”. Piazza Zama è una piazza non molto distante da Via Segesta, dove sorge appunto la casa in questione. Crederlo o no, il solerle funzionario postale recapitò la lettera. Quanti anni fa? Adesso…? Adesso ci sono codici postali, selezione automatica, il recapito in moto. Infatti non arriva mai niente. Scioperi? Sì, a volte ci sono, ma c’erano anche allora. Penso che, se il Direttore vuole usufruire ancora della mia modesta collaborazione, dovrà istituire una specie di Pony Express tra Milano e Torino. Cavallo, bisacce, stazione di posta a Novara per il cambio di cavallo e via. Il cavaliere? Scelga il Direttore. Qualcuno lo troverà. E poi, adesso, l’equitazione è di moda.
Peccato non ci sia più l’arma della Cavalleria classica, così elegante, così romantica. La famosa “Carica dei 600″ della cavalleria inglese nella guerra di Crimea. L’eroica carica dei cavalleggeri italiani contro i carri armati russi sul Don. Anche nel basket esiste la carica. La cosiddetta carica psicologica, di cui ho parlato a suo tempo su queste colonne. Poi c’è la carica simile a quella dei cavalleggeri, il contropiede seguito dall’eventuale contropiede secondario, o transizione offensiva, se più vi piace. Quando ero adolescente, ero un grande ammiratore della Ginnastica Roma allenata dal grande dottor Ferrerò, e colonna della quale erano gli amici Primo e Cerioni. La Roma giocava usando una grande ragnatela di passaggi (allora non c’erano i 30”) e vedere un tiro era un avvenimento. Mi era antipatico il Borletti Olimpia (con Stefanini e Romanutti); gran contropiede, al massimo giochi a due e via. Il primo vero allenatore che ebbi fu Cafiero Parrella, gran praticone ed amante del basket di corsa, lo sognavo azioni complicate, Cafiero andava per le spicce. E faceva bene. Perché vincevamo. Quando vidi l’Ignis allenata dal povero Rino Garbosi, il contropiede cominciò a piacermi dal punto di vista estetico. C’erano duetti iniziati da Nesti e conclusi da Zorzi (sì, proprio lui, il talpone) da far leccare i baffi. Poi…poi… posso dire che negli ultimi ventarmi le squadre da me allenate hanno giocato bene e male, ma il contropiede l’hanno usato tutte, dico tutte, e credo bene. Da qualche anno, poi, la “carica” è tornata di gran moda in Italia. Chissà, a furia di guardare partite NBA in televisione, si sono aperti i crevelli, o sono cadute le fette di prosciutto dagli occhi. Vogliamo parlare di squadre che hanno fatto la storia? Boston Celtics, Los Angeles Lakers, UCLA, Real Madrid, Sìmmenthal, Ignis: tutto contropiede. Va bene, ma non tutti allenano grandi squadre. E allora, control bali? Si, però nel campionato universitario americano, dove non esiste – o non esisteva – la regola del limite anzitempo, e se uno vuole, la palla se la può anche mangiare o mettere sola in tasca. Contropiedi, transizioni, tiro rapido, buon equilibrio difensivo e aggressività sui rimbalzi d’attacco. E il basket del futuro, è già il basket di oggi. Bruciate i libri degli schemi. Questo è il mio messaggio per i postini. Peccato che andrà perso, perché fino a quando il Direttore non istituirà il servizio di Pony Express, ci sarà sempre il rischio terribile che i miei vadano persi, con incomparabile danno per l’umanità intera.

La filastrocca del Coach
Longtemps, longtemps, longtemps apres que les poetes ont disprue leurs chanson courent ancore dans les rues… (Charles Trenet)

C’era un coach cosi piccolino che quando l’ala, passava la palla sul muso gli dava e gli rovinava il nasino.
C’era un coach cosi pesante che più di una panchina spaccò; il suo manager risparmiatore, una di ferro gliene regalò.
C’era un coach così educato che i giocatori non sgridava; anzi, nemmeno parlava, e pertanto era assai stimato.
C’era un coach così intellingente che la squadra non allenava: “Non voglio sprecarmi -diceva – tanto nessuno capisce niente”.
C’era un coach americano che ululava in inglese, una guardia zoofila lo prese e lui gli morsicò la mano.
C’era un coach a tempo pieno che gli schemi in ufficio disegnava e le pratiche in palestra sbrigava: ben presto divenne scemo.
C’era un coach che se ne fregava e allenava senza contratto; fu tosto cacciato di botto e poi se ne lamentava.
C’era un coach con l’assistente che la panca gli segava, e lui che se ne fidava perse il posto immantinente.
C’era un coach che dichiarava che il play-maker è fuori di moda così la sua squadra è retrocessa ma lui non è che si roda.
C’era un coach che era speciale a lisciarsi i giornalisti cosi quei poveri cristi non ne scrivevano mai male.
C’era un coach assai famoso – nello scegliere gli americani ne ingaggiò uno zoppo e uno monco – e si lamentò dei giocatori nostrani.

LA BALLATA DEL TALPONE

C’era un coach che voleva essere morte perché tutto gli era andato storto: la preparazione, il campionato, di andata il girone, e in quel di ritorno fu poi disgraziato. Si gettò in mare con un sasso al collo ma era bassa marea, ebbe solo lo scollo del cuoio capelluto, gli venne lo scorbuto. la peste, l’epatite, e poi quattro ferite. In pieno delirio si bevve il collirio, il suo presidente gli disse: “Non sente che son solidale? Non se l’abbia a male, la metto a riposo, di questo mi scuso, ma lei capirà, c’è la sua salute la probità da salvaguardare, perché poi allenare?” È intanto di tuoi qualcuno squittiva. Apparve una fata che il coadi avvertì: “Prima o poi un talpone arriva”

 

BLUES DELL’ARBITRO
Arbitro dall’uniforme color della polvere tristamente annerita dì sudore sotto le ascelle, arbitro che non hai fatto fortuna col fisico da esonerato in ginnastica, inconscio strumento del fato che usi il fallo non come il comune natale ma come una mannaia che cade senza lare male, presaga di espulsione lirenco bersaglio d’insulti, di sputi, di monetine consumi il di difesa senza un barlume di gloria. Lo sciopero improvviso degli autonomi ferrovieri ti imprigiona m un sala d’aspetto, ti ruba il riposo e gli occhi cerchia del lunedì come dopo una notte al night significano scherno di in capufficio con l’ulcera.Non champagne ma un’aranciata acitìi non caviale, ma un panino di plastica, non proto ma…, ma lezzo di arabo. Arbitro no sbattuto in prima pagina, arbitro, solo quando* cidi di ritirarli, ci pentiamo della parole non scambiate, della solidarietà umana di cui ti siamo se avari solo allora arbitro, comprendiamo quanti ti eravamo e ti saremo amici.

ODE A SILVESTRO
Silvestro, gatto veneziano, anzi gatto di castello, gatto ex trovatello, tu mi senti, anche io non ti sento di notte, quando un fioco lamento esce dal mio stomaco ac nulla, balzi sul mio letto i ghiaietto leggi nella mia ar il gatto è un animale interes , neppure di essere an sogni e dei miei incubi apr: allontani le chimere, scac aspetti assieme a me l’albi l’alba è spesso vano.

FILASTROCCA PAESANA

Lo disse un dì Puglisi – lo confermò Rubini se vuoi viver tranquillo – allena i ragazzini.
Lo disse un giorno Peterson al fidato Cappellari, spesso in attacco giochiamo come somari.
Lo disse Palazzetti a Skansi Pero slavo: con Bouie e con Kicanovic sei davvero più bravo.
Lo disse un giorno Allievi all’ottimo Morbelli: i titoli mi piacciono, ma gli incassi son più belli.
Lo disse Giannì Asti a quelli del BerLoni: se non vinciamo il titolo, voi siete dei… bricconi.
Lo disse il bravo Mangano parlando al suo Jura, chi ha Chuck nella sua squadra farà buona figura.
Lo disse Taurisano, parlando con gran stizza, le prossime vacanze non le trascorrerò a Nizza.
Lo pensava Paini, saltando in mezzo ai fossi, Rank mi ha fregato e Beshore ha salvato Rossi.
Dichiarò Pentassuglia, fregandosi le mani: in fondo io non ho fatto peggio di Percudani.
Lo disse mister Crespi rivolto a coach Pasini: se dai le dimissioni non perdi i tuoi quattrini.
Lo borbottava Sales, di Grascia il Baronetto: quando ti becco Bianchi, ti sparo dritto al petto.
Lo proclamò De Sisti, simpatico “menzogna”: se non fai difese, è certo una vergogna.
Rispose Cardaioli: cos’è questa menata? Ci vogliono otto zone, e una combinata.
Disse Giancarlo Asteo, svegliandosi dal coma: da padella alla brace, da Lazio a Bancoroma.
Aggiunse Benvenuti, in pieno mezzogiorno: Roma sarà bellissima, ma deh!, è meglio Livorno.
Diceva un giorno Jordan, parlando con distacco: se Dodo mi da via, chi penserà all’attacco?

 

I Passi perduti
Caminito, qua el tiempo,haborrado…”
(dal tango argentino “Caminito”)

Al parco Ruffini, quello che io chiamo il mio sentiero dei passi perduti, un tappeto soffice di foglie gialle che mi accompagna via via fino all’ingresso del Palasport e dopo una rampa di scale si trasforma nel verde vivo del contorno del campo da gioco, il mio praticello. Sul mio praticello cammino e raccolgo le idee mentre i giocatori effettuano il riscaldamento, il mio praticello calpesto nervosamente durante le fasi più concitate delle partite.

Tra arrivo e partita, il rituale è il solito. Lasciare il giubbotto nell’attaccapanni all’angolo dello spogliatoio, scrivere sulla lavagna la formazione avversaria con le nostre marcature abbinate, disegnare i principali schermi d’attacco dei rivali, attendere che il massaggiatore Roberto finisca il lavoro di bendaggio e massaggio, controllare che tutti i giocatori siedano quietamente e siano in grado di prestare attenzione. C’è il discorso di rito, il riassunto del lavoro compiuto in settimana, le indicazioni per la gara imminente, le disposizioni speciali, le raccomandazioni individuali, e si cerca anche di toccare i tasti che ispirano la sinfonia giusta nello spirito del singolo e del collettivo. Nell’ora e mezza di guerra non c’è tempo di meditare su quando sia impietosa la guerra stessa. Non ci sono santi, ci debbono essere vincitori e vinti. Non è un lavoro d’ufficio, questo, non c’è routine; non è lavoro d’artista, non ci sono pennellate di rifinitura; non è neppure una battaglia, dopo la quale a volte non risultano né vinti né vincitori. E’ una piccola guerra, dalla quale escono inevitabilmente trionfatori e sconfitti. La vittoria da sempre e comunque una sensazione di esaltazione, di euforia, di leggerezza, di felicità. La sconfitta…. eh, la sconfitta è come una ragnatela appiccicosa e schifosa che si attacca addosso, è una sensazione sgradevole, come quando sei vestito con abiti pesanti e all’improvviso viene un gran caldo e tu sudi e soffochi e magari sei in treno e sai che la doccia è lontana milioni di anni luce. La sconfitta è come una notte resa insonne da dolori lancinanti, allo stomaco, e tu non hai più pastiglie, è come la sete quando il frigorifero non funziona e dal rubinetto cola acqua giallastra. Ma non è niente di più. Non è una tragedia, nessuno muore, nessuno è ferito gravemente. Si può pure rimediare ad una sconfitta, basta analizzarla con calma, capirne le cause, pensare e predisporre i rimedi. Possibilmente il giorno dopo, quando la mente è più fredda. Al massimo un’ora dopo la fine della partita bisogna tornare in sé. Dire: “Ma io quando perdo divento pazzo, soffro come un animale ferito, non mi controllo”. Se sei fatto cosi, amico mio, non vivrai a lungo. E neppure allenerai a lungo, te lo garantisco. E’ questione di scuoter via le ragnatele, di arrivare a casa e fare la doccia, di arrivare alla farmacia di turno e procurarsi le pastiglie, di sopportare un po’ di sete. Non si può allenare con continuità ed efficacia nel tempo, se non si ha la capacità di discernere, se si è preda delle passioni, se non ci si rende conto in quale realtà viviamo. I problemi veri sono quelli esistenziali, è già così difficile vivere in armonia con la natura. Anch’io mi lascio travolgere, ma da cose che sono al disopra della mia capacità di comprendere. Guardo in TV “Quark” e mi sconvolgono le immagini trasmesse da un Mariner che sorvola a bassa quota Marte. Osservo anch’io la nebulosa che è al centro di Orione e mi sento perdere nell’infinito. Cerco di stare con i piedi per terra, di vivere nella natura a me più vicina, e magari mi sommerge un’ondata di tenerezza alla vista occasionale di un micetto odi un cagnolino. Natura, vita, specie, evoluzione, universo, estinzione, razze: Dio, come mi gira la testa! Per fortuna esiste il mio sentiero dei passi perduti che imboccherò per molti mesi ogni due domeniche, sotto i piedi un tappeto prima giallo oro poi verde prato, sul capo prima un soffitto di rami e foglie intrecciati, poi una cupola luminosa. E nel cuore un senso di angoscia per l’avvenimento imminente, ma una pace smessa dalla coscienza del dovere ti ma n a. Chissà, forse sarà cosi il sei accompagnerà verso la nera incoscienza della morte o verso più improbabili Campi Elisi.

Il poeta o vulgo sciocco…La primavera produce i fenomeni più strani, come il raffreddore da fieno, lo sbocciare dei fiori, il germoglio delle piante; fa nascere l’amore, provocare udori e tremori, le ginocchia traballano, il capo gira. Nel quadro di questi fenomeni primaverili, io vengo colto da un attacco pseudopoetico. I miei lettori mi perdonino e mi compatiscano.

ODE AD UN PRESIDENTE MAI NATO

A te, Presidente,
che non ci guadagni niente,
anzi, che ci rimetti,
che non hai tuoi protetti,
a te, Presidente,
grande uomo paziente,
che ascolti l’allenatore,
ne sei il sostenitore,
specie se la sconfitta
rende tua moglie afflitta,
e nel tuo club l’amico,
fa un viso che non dico,
e in tal modo ti sfotte
che stai sveglio la notte;
a te, Presidente
che scacci l’impellente
volere di vendetta
e dichiari alla Gazzetta
che la stima è immutata,
che la fede non è crollata,
che rispetti il contratto,
che tu non sei matto,
che mantieni l’equilibrio,
che non esponi al ludibrio pubblico,
un allenatore che è un grande professore,
che è un gran lavoratore,
che è solo sfortunato
per cui va sostenuto
nel modo più appropriato.
Tu hai propositi fermi:
primo, lo riconfermi
per i prossimi tre anni;
secondo, chi ne sparla
a morte lo condanni;
terzo, anche se è brutto
ed ha un po’ di pelata,
gli darai in matrimonio
la figlia tua adorata
A te, Presidente, voli il mio canto alato:
peccato solamente che tu non sia ancora nato

GLI ALLENATORI DI A1

Sales, l’educazione, Bianchini, la filosofia, De Sisti, l’agitazione, Mangano, la frenesia. Peterson, la pubblicità, Tanjevic, il dinamismo, Asteo, la sincerità, Nikolic, il pessimismo. Cardaioli, la furberia, Rinaldi l’eccentricità, Primo, la diplomazia, Bucci, l’elettricità. Non vi ho dimenticati, è solo questione di rima, Tau, Asti e Recalcati: dovevo inserirvi prima. Mi perdonerete forse, se vi offro senza malizia come a tutti gli altri colleghi la mia stima e la mia amicizia.

GIOCATORI DI BASKET
I giocatori di basket
sono grandi pipistrelli
che dormono a testa in giù
appesi ai soffitti di stanze d’albergo
e sognano letti immensi,
e ragazze altissime,
e fritti misti giganteschi da mangiare
cinque minuti prima che inizi la partita

ASSISTANT COACH
L’assistente allenatore è un animale strano, giovane quasi sempre, qualche volta anche anziano.
E’ un animale cieco, lui stesso lo confessa, vede solo una luce, una luce riflessa. Si nutre di soddisfazioni,
poche, e di molte mortificazioni. Dei premi-partita si contenta dell’odore, talor guadagna meno del decimo giocatore. Impara (se c’è il tempo) collabora (se gli è concesso) le sue idee più brillanti finiscono nel cesso se il suo capo è nevrotico egocentrico, dittatoriale ‘Tu non pensare, lavora, se no finisci male!”. L’aiuto allenatore non risponde, comprende, giustifica, accetta le peggiori reprimende. Lavora senza gloria a lui non è concessa è cieco, lui conosce solo luce riflessa. Trattato come un cane, non si ribellerà. A lui basta l’onore: L’onore è fedeltà.

COACH
Una lavagna sbrecciata una scarpa scalcagnata. Un fischietto appeso al muro una macchia di sudore scuro, un mezzo panino ormai duro. Una scheda qualsiasi cancellata, un’azione mal disegnata, un’idea che se ne è andata. Un appuntamento scordato, un giocatore ammalato, un arbitraggio scellerato. Una squadra da sistemare, un titolo da conquistare, un sogno da realizzare. Questa è la tua vita, coach.

I pregi della musica
“Chi vuoi sentir cantar la veneziana…”
(da un coro per il corso A dell’ISEF di Roma)

Dalla fine di agosto non ci alleniamo più alla palestra delle Cupole, all’estrema periferia di Torino, nella via Artom, una specie di Spanish Harlem Salvo qualche rara occasione, quando ci viene concesso l’uso del palasport, lavoriamo quotidianamente alla palestra della Riv. Sorge sulla riva destra del Po, in mezzo al verde, ci sono campi da tennis e bocce. La palestra è piccola ma confortevole, e tutti i pomeriggi è occupata dalle quattordici alle ventidue, dalle varie squadre della Berloni, salvo due ore, riservate alle attività dei dipendenti Riv. Calcetto, ginnastica, danza jazz, aerobica e così via. Al mattino la palestra è riservata alle lezioni dì educazione fisica che vi svolgono varie scuole. Anche noi, un paio di mattine alla settimana, usufruiamo dell’impianto. Normalmente raggiungo la palestra via bus, prima il 63 poi il 47. Arrivo in anticipo e faccio colazione al bar (altro comfort da non dimenticare) che, essendo aziendale, fa anche prezzi più bassi dei normali. Cedo quasi sempre alle lusinghe di Tullio, il barista, che mi propone una fetta dell’ultima torta confezionata dalla moglie, una vera specialista in materia (a mio parere, è quella di cioccolata la suprema). Poi mi affaccio in palestra e spio qualche minuto di lezione: si sa, sono stato anch’io insegnante. Ultimamente sono rimasto divertito ed edificato nel vedere una giovane e graziosa insegnante istruire una classe di prima elementare in esercizi ed evoluzioni assai semplici, eseguiti con commovente impegno dai piccoli, accompagnati dalla musica prodotta da un registratore. Chi era l’autore della musica? Mozart, certo avete indovinato. La musica classica, mi dicono, diffusa nelle stalle, aumenta la produzione di latte delle mucche. Con la sua cetra, Orfeo addomesticava le fiere. Una marcia militare, suonata al momento giusto, può caricare l’uditorio. Nei “colleges” americani esistono le “pep bands”, complessi che seguono le squadre anche in trasferta, per elettrizzare tifosi e squadre con le loro marcette. In Italia, patria o quasi della musica, a scuola non si fa niente o quasi per istruire ed indirizzare i giovani in un campo che è molto più importante di quanto non si creda. Voi non avete idea quanto sia alto il numero dei ragazzi stonati. Insegnando il canto corale e a suonare uno strumento.il difetto si può correggere, lo penso che molti ragazzi, oltre che stonati, sono o diventeranno presto sordi. La musica delle discoteche fa più strage di timpani delle perforatrici meccaniche. Mio figlio è (o era) un patito degli “heavy metals”, che producono dissonature atroci. Mio figlio, inutile dirlo, è stonato. Chiunque è capace di salire in pista in discoteca e ballare. Anche un orso. Basta scuoter-si un po’ qua e là, anche fuori tempo. Tanto, non se ne accorge nessuno. In un ballo cossiddetto “liscio” occorre: 1) seguire il ritmo; 2) conoscere i passi fissi; 3) affiatarsi con la dama. Imparare (al limite con l’aiuto di un maestro) porta senz’altro benefici per il ritmo e la coordinazione generale. Avete detto nulla! Sapeste che fatica quando si comincia a insegnare ai principianti il terzo tempo. La cosa più difficile per loro è “sentire il ritmo”. Il basket è gioco dì ritmo e coordinazione. Il grande Ramsey dice che, quando è Ben giocato, è come una (orma altamente artistica di balletto. Sono d’accordo con Jack, e d’altra parte non per nulla il basket è un gioco così congeniale per ai negri, che sono ballerini nati. Un famoso giornalista francese (che è stato un grande campione di atletica, Marcel Hansenne) coniò riferendosi al basket, una felice espressione: “Atletica giocata”, lo aggiungerei che trattasi di “balletto virile”. Occorrono forza, velocità, resistenza, abilità, ma anche senso del ritmo, coordinazione, equilibrio in aria. I ballerini classici vestono calze-maglie i non hanno molto; i cestisti indossano divise comode ed eleganti al tempo stesso, rigorosamente maschili. Ad ogni modo, mi sembra che le cose stiano cambiando in meglio. Alcune squadtre inclusa la nostra, hanno una specie di inno o marcia che ne annuncia l’ingresso in campo compagnata dal ritmato battimani del pubblico. Nelle scuole, gli insegnanti di educazione fisica sono istruiti sulle più moderne teorie, studiano si aggiornano. Forse cambieranno i programmi di educazione musicale, forse alla lunga (ma sarebbe meglio alla corta) i giovani torneranno ad apprezzare la musica vera. Speriamo. E complimenti alla giovane insegnante della palestra della Riv.

 

In un altra dimensione
Medico, cura te stesso

Cerco di compilare una specie di bollettino medico, tanto per avere un quadro della situazione. La caviglia di Morandotti va meglio grazie alla laser terapia, e, anche se salterà una partita di Coppa Italia, probabilmente domenica prossima potrà giocare. Però ho appreso che Scoti May e il suo piccolo hanno l’influenza. Questo complica le cose perché Scott non potrà giocare ed il bambino deve guarire immediatamente (oggi è giovedì) altrimenti la madre dovrà rimandare la partenza per gli Stati Uniti prevista per sabato. Ciò non è augurabile in quanto lady May ha iniziato l’ottavo mese di gravidanza e le linee aeree non ammettono volentieri le passeggere in gestione avanzata.
Le notizie su Bovolenta (della squadra Cadetti) operato tempo fa di menisco, sono buone, la muscolatura della coscia ha ripreso il tono, può riprendere l’allenamento a pieno ritmo. Viceversa deve sospendere il lavoro per qualche settimana Oberto, del minibasket Berloni, per un disturbo di crescita. Quanto a Paglieri, della squadra juniores, ha la caviglia che stenta a far giudizio, eppure è un bel po’ che dovrebbe essere a posto. Quasi quasi scrivo davvero un bollettino, lo batto a macchina, lo appendo al muro e lo firmo Diaz, sembrerebbe un bollettino della prima guerra mondiale. In compenso non so se a mio figlio Luca (che abita in Slobbovia con mia moglie) è passato il raffreddore e se ha trovato le lenti a contatto, che aveva bisogno di cambiare. In gioventù ho completati gli esami dei primi tre anni della Facoltà di Medicina e poi ho conseguito il diploma dell’ISEF. Con le nozioni apprese, ma sopratutto con la pratica fatta in tanti ‘ anni di palestra, potrei benissimo a questo punto fare il medico. Certamente non qui ma a Singapore, o a Tumbuctu. Ricordate quei vecchi film di ambiente coloniale, con Humphrey Bogart quasi sempre eroe e Peter Lorre sempre spia? C’era immancabilmente anche un medico alcolizzato espulso per indegnità dall’Ordine che poi, in un modo o nell’altro, si redimeva salvando la vita a qualcuno. Ecco, potrei fare lo stesso, magari non saprò riconoscere al primo colpo la lebbra o il beri-beri, ma in fatto di diagnosi e prognosi per quel che riguarda i giocatori, non mi batte nessuno. Sono invece un po’ scarso in scienze occulte. Ieri sera ho conosciuto un signore che è stato parecchio tempo ad Haiti, e mi ha parlato dei riti voodoo, degli zombies e delle streghe, quelle che infilano gli spilloni nei pupazzi e fanno ammalare o peggio la gente. Di zombies non ne ho bisogno, ne ho avuti abbastanza fra i miei giocatori del passato. Ma una strega di Haiti mi farebbe comodo, per far certe cose che so io. Pensandoci bene, debbo anche controllare se Cardaioli ha passato qualche settimana nei Caraibi, la scorsa estate. E’ un indiscusso mago della difesa, ma quando si deve giocare contro la sua squadra, non si sa come, si fa sempre male qualcuno prima. Arriva l’assistente Danna in questo momento e sghignazza. E’ reduce dall’ospedale, dove ha accompagnato May che doveva fare delle iniezioni. Mentre aspettavano il medico di colpo il vento ha frantumato una vetrata, e se Scoti non balzava via, si sarebbe trovato infilzate da un bel po’ di pezzi di vetro. Eh, sì, un viaggi a Tahiti si impone. O in un isola del Pacifico. Magari mi viene la stessa idea di Gauguin e mi fermo per il resto dei miei giorni. Chissà cosa ci vieta di imitare il grande pittore francese, dare un calcio a tulio e cambiare radicalmente vita. Non è vero che sia impossibile farlo. Si può fare, eccome! E più vado avanti, e più me ne viene la tentazione.
Per adesso, mi limito a prendere in consderazione una vacanza per l’estate prossima Intanto, per me una vacanza deve essere non tanto lunga, se no mi viene l’angoscia. A dilla verità, non so neanche dove o come mi piacerebbe farla. Potrei andare qualche giorno a Venezia, ma d’estate la città brulica di aridi turisti: per di più gli amici sono tutti piazzati ai Lido.d* la mattina alla sera, e non li schiodi neancheJ morire.
Qualche giorno ad Udine, sarebbe meglio Lì non ti sbucano i turisti da sotto il letto, e trovi sempre un amico per fare due chiacchiere. E pò nell’estate ci sono un’infinità di sagre di paese con pochi soldi bevi bene, mangi ottime salsiera e se ti piace il liscio, c’è tanto di orchestrina a disposizione.
Anche qualche bagno di mare mi piacerei) be, in un posto con l’acqua pulita, senza tane confusione. Però per trovare una zona adatta dw fare un viaggio lungo almeno un giorno, e allora non ne vale la pena.Un fiume, quello sì che mi piacerebbe. Fase mi decido a fare la famosa risalita del Brente in battello. Oppure me ne scelgo uno, la Doraqu in Piemonte, per esempio, o l’Isonzo, e melon-salgo piano piano, me lo esploro pezzetta pet pezzetta, da solo, e ogni tanto mi sdraio sui sassi, sotto un cespuglio, a sentir frinire le cicalees veder sfrecciare le libellule. Nelle ore calde magari appare un fauno che suona la siringa, o m sfiora la veste candida di una ninfa. Non c’émer* di più bello dell’acqua che scorre, o della seta ma di un’onda che si frange. O del guizzo di una fiamma in un camino. O di una nuvola bianca che disegna in cielo mutevoli figure. Mi affascina tutto ciò che si muove, che cambia continuamente aspetto. Forse sono un segno e mille forme. Intanto si fa male Sa Ma la farò davvero la farò? Forse mi deciderò prima di una pedata a tutto e via in un meglio essendo eternauta, in une.

 

In ricordo di Silvestro
“O morte, o morte”
( Dal dialogo di un venditore di almanacchi e della morte di Giacomo Leopardi)

Come diavolo può entrare un gatto in una rivista di basket, si chiederà il neo-lettore. E qualche velerò lettore commenterà, ma basta insomma con questo gatto. Però io dedico questo pezzo (che scrivo senza essere in grado di cacciare indietro le lacrime) ai tanti lettori che mi scrivono e ai tanti ti tosi di squadre avversarie che prima, durante e dopo una partita si sono preoccupati di venirmi a chiedere notizie del mio micio. Questo povero orfanello di forse un mese di età, lo raccolsi la notte di San Silvestro davanti alla porta dell’Arsenale di Venezia. Nevicava, era abbandonato e miagolante. Me lo infilai nella tasca del cappotto, lo portai a casa e lo presentai ai miei, piccolo esserino malinconico che non era altro. Ci volle più di un mese per farlo riprendere ed essere certi che non sarebbe morto. Aveva una codina che pareva uno spago e una pancina tutta spelacchiata. Per mesi ho avuto le mani come se le avessi immerse nei rovi, me le prendeva per giocare e me le graffiava con le unghiette. Ci trasferimmo a Seslo. per un anno non allenai, stavo molto in casa e lui mi seguiva come un’ombra. Sentiva quando ero triste, e mi saltava addosso. Mi aspettava dietro la porta quando uscivo; e quando mangiavo mi balzava in braccio, guardava nel piatto e aspettava che gli dessi un pezzette di cibo. Spesso mi dormiva accanto di notte, a volte saltava sul tavolo, si rizzava sulle zampe posteriori, mi appoggiava una zampa sul petto e con l’altra mi accarezzava il viso.

Quanto amore mi ha dato Silvestro e quanto l’ho amato ! Aveva un suo linguaggio di suoni e versi coi quali si annunciava. Quando rientravo in casa, voleva che lo seguissi nella stanza da letto e qui erano effusioni a non finire- In questi ultimi tre anni lo vedevo poco, lui stava a Sesto coi miei, ogni tanto mia moglie me lo portava per qualche giorno, o facevo io un salto a casa ed eravamo di nuovo insieme. Lo sentivo come se tosse una mia creatura, come se fosse nato da me. Poi il deperimento e la malattia, la diagnosi di tumore e i miei giorni terribili passati a Trieste e Zara e ancora la visita dello scienziato milanese, e la nuova diagnosi e la speranza. Dopo le cure però non c’è stato più dubbio: un virus che colpisce solo i felini gli si era annidato nei reni. Ancora cure, era deperito tanto. Una giovane e brava veterinaria, Verena, amica di famiglia e assistente del professore, l’ha tenuto a casa sua per un po’, per assisterlo meglio. Un giorno, partendo all’alba da casa mia a Sesto l’ho visto, povero scheletrino, sul mio divano. Sono andato a fargli una carezza e ho sentito le sue fusa. Non l’ho più visto. Dopo un altro tentativo dì cura, Verena, poiché il male cominciava a colpire i centri nervosi, l’ha soppresso.

La mia vita non potrà essere mai più la stessa, senza Silvestro. Ero disposto ad accettare una sua morte di vecchiaia, l’avrei tenuto in braccio io stesso. Il mio amico, il mio confidente, la mia creaturina mi ha lasciato; via lacrime maledette, e lo vedrò mai più. lo so dov’è ora, lo vedo chiaramente; c’è un campo grandissimo di grano maturo, in mezzo al quale spicca un pino che si erge solitario. Lui è là, ai piedi del pino, che fa le fusa e mi aspetta. Ma io so che non lo raggiungerò mai, perché per me non ci sarà altro che il nulla, il nulla senza il mio Silvestro, e scusatemi se vi dico che sono disperato, non voglio nulla, né rispetto, né conforto; lasciatemi solo con la mia disperazione.